Il San Nicolò – Maiatico FC 1983 IV episodio – prima parte (Luca Farinotti)

IV (Il San Nicolò)
Nel mio immaginario di bambino c’era, al primo posto, il Comunale di Torino, 71.161 spettatori, dove sono stato per la prima volta nel 1983 in maggio, accompagnato da mio zio Germano ad una memorabile Juventus-Inter 3-3, reti, nell’ordine, di Altobelli (I), Oriali (I), Platini (J), Muller (I), Platini (J) e Bettega (J), arbitro il signor Barbaresco di Cormons, un nome, un controsenso, che in termini di anomalia enologica equivarrebbe più o meno al signor Refosco di Rocchetta Tanaro – di quella giornata conservo: lo spettacolo di pubblico, soprattutto il momento in cui irruppero i tifosi dell’Inter in curva cantando “ Juve Juve Vaffanculo!”-felice e stupito capii cos’era lo stadio: un luogo dove potevi anche dire vaffanculo e nessuno si arrabbiava, anzi anche tutti gli altri si univano al coro; i 6 gol, tutti bellissimi, con lode il primo di Altobelli, da fuori, e l’ultimo di Bettega, da un metro e mezzo, giunto dopo un forcing esaltante della Juve che aveva rimontato dall’1-3 (quando Bobby Gol la buttò dentro, mio zio tarantolò, insieme a tutto lo stadio, “sol-levandomi” letteralmente al cielo e gridandomi nelle orecchie “RETEEEE!!!”, fu un momento bellissimo); il rigore che poteva starci per la Juve sul 3-3, e che Barbaresco non assegnò perchè prima della partita c’erano stati dei gravi incidenti tra i tifosi e il pareggio andava bene a tutti.
Al secondo posto, il Meazza di San Siro, Milano, 83.141 – il fatto che, oltre ad essere più bello del Comunale, avesse anche una maggior capienza indispettiva la mia juventinità, ma cercavo di non pensarci.
Al terzo posto il San Paolo di Napoli (con la bellezza di 85.012 posti, cari signori, mi ha sempre fatto tremare un po’ le gambe quando mi mettevo nei panni di un giocatore della Juventus che ci doveva andare dentro).
Poi, nell’ordine, sia in virtù del numero di spettatori che, non meno importante, del cosiddetto colpo d’occhio, il glorioso Luigi Ferraris (55.773), che sembrava un condominio, il Bentegodi di Verona, indissolubilmente legato al ricordo dei capelli unti di Ferruccio Gard, il Via del Mare di Lecce, abbinato al “riporto” leggendario di Franco Strippoli, e il “Cino e Lillo del Duca” di Ascoli (34.110), inventato appositamente per poter dare un senso a un uomo altrimenti inspiegabile, Tonino Carino.
Giuro che il Parrocchiale di Maiatico veniva immediatamente dopo questi stadi e sicuramente prima di tutti gli altri. Potevi promettermi, che so, un Sada di Monza, un Curi di Perugia, un Tardini o un Mirabello; vuoi spararla grossa? e va bene, dammi pure l’Olimpico con i suoi 66.341 (huey!) posti a sedere, tentami: ti rispondo San Nicolò, senza titubanze, senza rimpianti.
E se ci metti il Maracanà di Rio, o il Nou Camp…San Nicolò!
Da ultima spiaggia mi dai il Santiago Bernabeu (tre volte campioni del mondo, lì)? San Nicolò, con il suo parterre d’erbettina fina fina, profumata di lumache e prataioli, vuoi mettere con la tribuna Tevere… San Nicolò, con le porte senza rete ma col Vincio tra i pali che, se la fa passare, viene fustigato, vuoi mettere con Tancredi… San Nicolò, che quando tramonta il sole diventa d’oro e le pareti della chiesa rosa di Maiatico, in cima al monte, diventano di pastello e sembra d’essere in India, vuoi mettere con il Foro Italico… San Nicolò, che a vederci ci sono sei spettatori e li conosciamo tutti per nome (Gianyuri Mora, il papà del Cristian, Alemando Magistri, la tettoniana Sèvi, la perpetua e Saccani, il campanaro-chierichetto-giardiniere e dài e dài, che riposa coi giusti nel nostro cimitero country) e ci voglion tutti bene, vuoi mettere con quei trentamila imbecilli della curva Sud che sparano i petardi e ammazzan la gente e s’accoltellano, e i giocatori gli lancian pure la maglietta?
Il San Nicolò era il nostro Tempio dove, sotto forma di gioco, si celebrava l’attitudine alla vita di ciascuno di noi. Anche l’Olimpico è un tempio, dove si vivono rituali catartici moderni, ma questo i trentamila della Monte Mario non lo sanno. Il tuo stadio è la tua casa, di più, la tua chiesa, e tanto è più consacrata quanto più tu ci vivi dentro intensamente.
Se mi chiedo dove eravamo veramente vivi da bambini, dove ogni nostra cellula vibrava all’unisono, come descrivono i manuali yoga, fluendo con il Cosmo, a Messa? a scuola, forse? a catechismo? a casa? o a mangiare la pizza? a bere la cioccolata in tazza Cameo? a bobbare sulla neve? a guardare i cartoni? No, no, no, no, no, no, no, la risposta è sempre no.
Solo un posto al mondo ti rendeva veramente te stesso, vivo, senza complessi o costrizioni per quanto potevi chiamarti Salvo o Fulaia, senza bisogno che te lo spiegasse la mamma per quanto ti chiamassi Vincio, senza il giudizio di maestri o professori per quanto potessi essere un Férda, senza l’autorità di un padre-padrone per quanto fossi un Tito o un Luca, senza la società per quanto fossi il Lupo; quel posto era tra i confini di un rettangolo verde, era il tuo campo da calcio. Lì eri vivo e il tuo corpo si innalzava insieme al tuo spirito felice in una gioiosa, ariosa, vibrante, luminosa preghiera al Cosmo.
Lì si viveva l’unione con Dio.
La partita era la tua Eucaristia e il modo in cui la giocavi il metro del tuo esser praticante.
Questo gli Ultras Fighters, gli “Irridducibbili”, e la Fossa dei Leoni non lo capiranno mai, ma Gianyuri Mora, Augusto, Claudién detto Zico e il papà del Cristian, i quattro cavalier cortesi al servizio del “cuore di bambino”, lo capirono – guardaci , e poi guardaci ancora , e riguardaci che ti nasce dentro la voglia di ridiventar bambino, e di giocartela quella parte di vita viva che c’è ancora in te, e di tirarla, e di caderla, tuffarla, batterla, pararla, rimetterla in gioco, salvarla all’ultimo minuto, risolverla con classe, profonderla, continua continua continua – e ci/si fecero il più bel dono che abbiano mai veduto le intramontabili zolle maiaticesi.
Erano gli inizi dell’86. S’eran messi d’accordo tra di loro, il “babbo” – come lo chiamava lui – di O’Mora (che aveva un’officina dove lucidano i tubi) portò su i pali e le traverse d’acciaio, lucenti, insolite, originali; poi, con Claudién e mio padre montarono le porte, misero le reti e tirarono su una recinzione alta cinque metri tutt’intorno al campo, il che significava mai più a rincorrere la palla ruzzolando giù per un campo arato, mai più spine nelle chiappe, mai più lamentele gratuite delle squadre Ospiti.
Il Férda era in fregola e portò dei forbicioni paurosi per potare gli abeti sui cui rami erano terminate diverse partite, Andrea Grassi M.D. portò il gesso per fare il fallo laterale, le aree e i dischetti del rigore, Fulaia e l’Azzon portarono una tosaerba a testa (una grande per il grosso del lavoro e una piccola per le rifiniture). I lavori durarono più di qualche giorno.
Mi rimangono nette e distinte: l’immagine del Férda arrampicato in canottiera a potare gli abeti e a dirigere i lavori di tosatura (“Fuai così, fuai cosà, andiuamo avuanti a lavuoro finito, mi raccuomanduo…”), quella di M.D.Grassi che picchettava a torso nudo, affettuosamente raccapricciante, e quella di me stesso che, annalista del calcio e cronista nullafacente, mentre gli altri lavoravano, giochicchiavo col pallone, testando le ultime innovazioni e cercando di immaginarmi l’effetto finale di quelle ch’erano ancora in divenire.
Anche queste ultime furono terminate e il San Nicolò, a tre anni dagli esordi, era adesso una favola di campo, con le cose in regola, le lunette, le bandierine e tutto il resto.
Il terreno di gioco era rimasto, come da sempre, più simile a un trapezio che a un rettangolo, ma agghindato com’era, ti do la mia parola che non se n’accorgeva proprio nessuno.
Eppoi mica era come gli altri campi parrocchiali (che avrebbero potuto essere contenti di avere un quarto del carisma del San Nicolò), che magari eran fatti meglio, con delle porte regolari e il terreno senza pendenze e tutto quanto occorre per farli assomigliare allo stadio Olimpico, ma dove ci vedevi sempre della gente qualunque che andava lì solo per sfruttare il campo, e lo capivi ch’eran tutte “Terre di Nessuno”; oppure, quando ci giocavano quelli della parrocchia, sbirciavi subito quell’impostazione canonico-disciplinare, quasi di timore, tipica di quel sistema meschino in voga presso i preti, la maggior parte, avidi di anime, teso ad usare il viscido ricatto del gioco e del campo da calcio per catturare poveri bambini vergini di valori spirituali e da poter plasmare secondo le norme del bigottismo vigente (risultato: quelli della mia generazione sono i bambini che si sono fatti più seghe di tutta la storia).
Noi, invece, avevamo L’Esorcista, uno che non ci ha mai negato il suo lato umano – famosa la sua frase: “Intendiamoci, la tentazione c’è sempre” –, uno che ne capiva di calcio, anche se tifava per la Fiorentina, uno che ci regalava le stecche di Marlboro (“piuttosto che al bar, di nascosto, fumate qui che c’è l’aria buona”).
Per intenderci, il don spaccava il culo ai passeri.
Era stato sui monti in meditazione, molti anni, e conosceva per nome tutti i fiori e le piante, come un San Francesco mignon, e scacciava le “fatture” e sapeva tutto di parapsicologia, e voleva talmente bene a quegli approfittatori dei suoi parrocchiani che durante la Messa spesso collassava per la commozione; poi aveva i cani e l’orto e centinaia di vasi di fiori e una perpetua che gli voleva un bene dell’anima; aveva anche la vigna e faceva una Malvasia di Maiatico torbida, con tre dita di fondo, ma che aveva diritto alla Denominazione d’Origine “Colli di Parma”, e faceva la grappa che, a suo dire, guariva dall’ulcera.
Era Esorcista autorizzato dal Vaticano e su questo aveva un po’ la fissa, come per Antognoni, ma gliela si poteva perdonare.
(fine prima parte)
Immagine: Lo stadio più bello del mondo, Andrea Martis (acquerello su carta)
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