Il San Nicolò – Maiatico FC 1983 – IV episodio, seconda parte (Luca Farinotti)

Le notizie ANSA della primavera 1986 davano Fulaia disperso nelle nebbie e l’Arcua finalmente consegnatosi definitivamente all’ippica, mentre il Salvo doveva scontare otto mesi di squalifica inflittagli da sua madre; con Tito appiedato da una borsite cronica psicosomatica al ginocchio destro, Pavlén  internato insieme a Fantozzi in un centro Messeguè e Ugo Giovannotti che non si era più ripreso dalla ghéga che gli avevo tirato spaccandogli le ossa, eravamo in pochi a poter godere del privilegio di inaugurare un nuovo stadio e, va da sé, un nuovo, avvincente ciclo di mirabolanti gare calcistiche.

Fu allora grazie a questa messe di squalificati, internati e infortunati che entrò finalmente in scena la favolosa squadra Seniores.

Ci trovammo al campo alle 14 e 30, in contemporanea con l’inizio delle partite di “A”. Radio portatile a bordo campo, a tutto volume, Enrico Ameri collegato da Napoli, Sandro Ciotti da Milano, Carlo Nesti da Torino e dal campo principale della “B” quel genio dell’eloquio di Ezio Luzzi, che con le sue interruzioni apparentemente inopportune restituiva dignità al calcio intero rendendo importanti quanto quelle della Juve le partite del Licata (avrebbe senz’altro fermato l’appassionata radiocronaca di Ameri da Napoli per segnalare una pericolosissima punizione all’altezza del cerchio di centrocampo in Maiatico-Villeggianti…); fruttini e crostate, per l’occasione, accomodate con cura su una panca presa in prestito dalla chiesa e sistemata in parterre; pomeriggio pallido con qualche nuvola di troppo, terreno in perfette condizioni, con le linee fatte dal Férda, col gesso di Grassi, in grande spolvero; spettatori: 2, mio cugino Alessandro, tre anni più piccolo di me e la Sèvi, sempre presente, tette sempre enormi.

Formazioni schierate: per la Juniores, Vincio in porta (con un paio di guantoni da portiere nuovi, nero/verdi, firmati Stefano Tacconi), il Férda e O’Mora davanti al Vincio, io e M.D.Grassi in seconda linea, Azzon Faier in attacco e  M.D.Bottio in panca – probabilmente la migliore formazione mai schierata al San Nicolò.

Gli avversari scesero in campo con mio padre in porta, Gianyuri Mora e il papà del Cristian in difesa, il Cristian (che da quel giorno in poi volle giocare sempre insieme a suo padre) e Asfodelo (un ex-rugbista, zio di Ugo Giovannotti) poco più avanti, Claudién Artur Antunes Coimbra “Zicoooo” in attacco (occhio alle bombe!).

Era la partita dell’anno.

Non so cosa provassero gli altri, io ricordo di aver voluto bene anche al Vincio, di aver perdonato M.D.Grassi per la sua inettitudine, di aver amato i comunisti, di aver pensato che mio padre era buono e che avrei permesso al Bottio di giocare anche cinque minuti; tutto contemporaneamente.

 

Purtroppo non riuscimmo nemmeno a battere il calcio d’inizio.

Qualcuno fece appena in tempo a dire “Suecondo me piuove”, che eravamo tutti zuppi come cani randagi; non ci fu nemmeno il pensiero di provare ad aspettare cinque minutini, veniva giù che dio la mandava, erano già tutti in fuga.

M.D.Grassi, il Férda, il Vincio e il Cristian vennero a ripararsi a casa mia. Preparai dei panini con le micche di Marsilli e la coppa e portai delle lattine di Fanta, per me acqua perchè non bevevo schifezze (nella mia vita detengo un record da Guinness: a 29 anni non ho mai assaggiato una Coca).

Merendina in fagottone.

In capo a poche manciate di minuti smise di piovere, ma il campo era stato irrimediabilmente minato dall’acquazzone. Non ci restò che andare a verificare di persona ciò che temevamo di più e che di lì a 274 metri di strada non potemmo altro che constatare: delle virtuose linee del Férda non restava che un ricordo.

Eravamo in piedi, sconsolati, con le bricioline dei miei panini appiccicate alle guance e sulle magliette. Il Vincio fece un rutto.

C’era da recuperare un pomeriggio di gloria che ci era stato negato.

In quel momento arrivò Pavlén, era stato rilasciato dal Messeguè ed era venuto a chiamare suo fratello M.D. per conto di Omer, suo padre.

M.D.Grassi a casa non ci voleva proprio andare; anzi, mentre gironzolavo per il campo con lo sguardo fisso sulle zolle, atterrito per la devastazione che erano riusciti a infliggere venti minuti di pioggia al mio San Nicolò, notavo che il nostro ex-Capo si stava spremendo le meningi per trovare una valida alternativa alla partita mancata.

Stavo giusto risistemando un pezzo di terra con le mani di mio cugino, quando vidi balenare negli occhi di Emmeddì una folgore di cinica ebbrezza. Un ritrovato fervore antico mi attanagliò, avevo capito che l’aveva pensata grossa. Terminai il mio lavoretto e mentre accompagnavo mio cugino alla fontana che tutto monda, udii il banditore più catarroso del mondo, 25 volte operato d’adenoidi, proclamare il Gran Ordine del Giorno di Riserva: “Ascoltate tutti, oggi faremo il Catch! Vi sfiderete – rivolgendosi a mio cugino, al proprio fratello, al Vincio e al Cristian – in una serie di incontri di lotta libera all’ultimo sangue, tutti contro tutti con girone all’italiana, chi avrà vinto più incontri sarà il Campione!”

Non era una proposta, era un ordine.

Io e il Férda l’accogliemmo con entusiasmo novello e un sorpreso sorrisone diabolico. Più che altro ero stupito da M.D.: da quando era diventato succube di O’Mora non aveva più avuto questi slanci da intelletto sopraffino. Sposai appieno il proclama – dandomi subito da fare per soffiare al Férda i lottatori a cui avrei fatto io da “secondo” – e decisi che per quel pomeriggio M.D. sarebbe tornato ad essere, di nuovo, ad honorem, il Lupo, il Capo. Se lo meritava.

Ovviamente lasciai al Férda il Vincio e Pavlén e puntai tutto sul Cristian, quale elemento favorito, e su mio cugino, come possibile outsider.

Il Férda tentò una timida protesta: “Ma io il Vuinciuo nuon lo vuoglio”.

Lo tranquillizzai presentandogli l’allettante prospettiva di poter picchiare il Vincio se  avesse disatteso le sue indicazioni tecniche.

Era tutto pronto: la mia scuderia contro quella del Férda, il Lupo Giudice insindacabile, con tanto di diritti corporali sugli atleti.

Partono Pavlén e il Cristian: dopo un breve corpo a corpo è il mio pupillo a divincolarsi e a sferrare una serie di calci al volto che riducono Pavlén a una maschera di sangue. Mentre Pavlén si lasciava andare a un pianto dirotto e suo fratello gli ordinava di lavarsi lacrime e sangue e di prepararsi al prossimo incontro, mi complimentavo col Cristian e catechizzavo mio cugino, che oggi è un bel ragazzo ma allora era fifone e obeso, sulla tattica da contrapporre al proprio compagno di scuderia, cui era destinato nell’incontro seguente. Purtroppo il Cristian lo castigò severamente con un’impressionante raffica di calci e pugni al viso e all’addome (per il bene di mio cugino non fermai l’incontro, doveva diventare un uomo).

Il Cristian era quasi campione – scappati mio cugino e Pavlén – ma doveva vedersela con il Vincio, che aveva una stazza di almeno il doppio.

Cristian attacca per primo assestando un paio di colpi al bersaglio, ma non appena il  Vincio riesce a trovare le giuste misure e la presa, scaraventa in una pozzanghera il suo avversario e lo gonfia di pugni, lasciandolo a terra tramortito.

Noi, ovvio, tifavamo tutti Cristian, Férda compreso, e Tito, in segno di protesta, afferrò il Vincio e andò a depositarlo direttamente nel roveto, di peso, con tanti saluti alla sua mammina. Il fatto è che Tito era  arrivato da un minuto o due al massimo e, pur ignaro della situazione, diede comunque il suo contributo determinante e puntuale alla perfetta riuscita del pomeriggio.

Fu così che inaugurammo il San Nicolò nella sua veste definitiva – così come ancora oggi lo si può ammirare – noi, ragazzi cresciuti, come diceva sempre il don, “all’ombra del campanile di Maiatico”.

Lo Stadio più bello del mondo, luca farinotti

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