Carta dei vini: spesso una parodia della ristorazione stellata

La carta dei vini un tempo era una cosa seria. Oggigiorno è facile imbattersi, a qualsiasi livello di ristorazione, in carte non pensate, scritte male, non veritiere, talvolta semplicemente virtuali quando non rispettose, addirittura, delle annate: come quelle che vi costringeranno a fare mille domande prima di ordinare e a cambiare scelta dieci volte dopo avere ordinato solo vini non disponibili; diventerete antipatici al ristoratore mediocre cui, dopo essere stati incalzati con antipasto e primo piatto in rapida sequenza, quasi a sottolineare che la colpa di non avere ancora una bottiglia al tavolo sia solo della vostra odiosa irresolutezza, accorderete di portarvi un vino a sua scelta, pur di bere qualcosa.

Alla mancanza di cultura consegue la trascuratezza per il mandato imposto dal mestiere di ristoratore che non merita di essere associata ad altre definizioni che non siano quelle di dappocaggine, incapacità, inettitudine, nullità, mediocrità.

Il ristoratore stellato omologato, spesso protagonista di suddetti inconvenienti, è la prova schiacciante del degrado culturale a tutti i livelli di ristorazione.

E se, ancora una volta, volessimo concedere le attenuanti ai ristoranti insigniti di una sola stella, applicando i canoni paradigmatici della ristorazione resistente esclusivamente ai rappresentanti dell’eccellenza classica (la conquista della terza stella richiede un percorso lungo e tortuoso), può capitare che un giovane stagista travestito da sommelier, in un TreStelle superato dal tempo e sopravvissuto a se stesso attraverso lunghe e nebbiose stagioni padane, non sia in grado di spiegarti la differenza tra un Puligny di un produttore e uno Chassagne di un altro, per poi confessarti candidamente che non solo non conosce bene i vini della carta, ma che non è nemmeno sommelier.

Le carte saccenti hanno le gambe molto corte e gli stagisti, prima di incravattarli, bisogna portarli, almeno una volta, a vedere com’è fatta una cantina.

I giovani ristoratori, quelli ancora vergini e mossi solo dagli ideali, dovrebbero prendere esempio dallo squallore diffuso da cui il mondoristorante si è lasciato trasversalmente contaminare, nessuna casta esclusa. Ignorare l’importanza delle annate, delle differenze di vendemmia, storpiare i nomi dei vini e degli uvaggi che li compongono, storpiare altresì, con naturalezza, la lingua italiana nella redazione delle carte dei vini è forse peggio che presentare ai clienti carte “virtuali”. Perché il deterioramento in profondità inizia dalla trasandatezza nella forma. La forma serve a comunicare bene. E il ristoratore resistente ha il mandato di comunicare, di divulgare in modo virtuoso, di fare cultura.

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