Chernobyl e l’Uomo Bionico – Maiatico FC 1983 – V episodio, prima parte (Luca Farinotti)

V (Chernobyl e l’Uomo Bionico)
Da quando avevamo fatto il lifting al San Nicolò ci andavo quasi tutti i giorni, anche solo per cinque minuti, a controllare che tutto fosse a posto, che le cose nuove che avevamo messo (il cartello col nome dei tre presidenti o la panca, dono della famiglia Sgavetti alla parrocchia di Maiatico, rubata in chiesa e trasportata a bordo campo per far sedere le riserve e appoggiarci i caschi) e quelle vecchie che già c’erano (le margherite e i trifogli sul fallo laterale, le zolle scoperchiate che indicavano i punti di maggior flusso di gioco di Claudién e mio padre) fossero ancora lì.
A volte ero assalito dalla paura che ci rubassero le porte firmate Mora (coniate nella sua fabbrica e forgiate con lo stesso materiale usato per le marmitte della Ferrari, di cui la Lux Tubi di Mora & C. era fornitore ufficiale) o che qualcuno di Sala Baganza, per vendicarsi di un 9-3 che avevamo rifilato alla loro selezione di fondovalle, venisse a compiere qualche scorribanda vandalica ai danni delle recinzioni in materiale antisfondamento.
Per fortuna filava tutto liscio, e poi non ero l’unico ad essere in apprensione per il campo, perché più d’una volta anche M.D.Grassi, che era stato uno dei tre fondatori, fu visto aggirarsi nei pressi del San Nicolò con un’aria malcelata da sorvegliante in pena.
Perfino don Don, facendosi interprete delle nostre ansie e gelosie, si era messo ad allontanare con diffidenza gli estranei che s’avvicinavano troppo agli spalti.
Bene o male, tosavamo l’erba tutte le settimane e il campo era ben curato, pronto per la gara del sabato. Non ci andava proprio che dei salesi o dei felinesi ci venissero a giocare il venerdì, magari dopo che era piovuto, lasciandoci il campo malconcio.
Nel 1986, in preparazione all’avventura messicana degli Azzurri, giocammo tutti i sabati, saltandone soltanto uno, a primavera inoltrata, qualche settimana dopo l’esplosione di Chernobyl.
Era in arrivo un nembo radioattivo con pericolo di pioggia, quel giorno, e le mamme non ne volevano proprio sapere di sguinzagliare i loro pargoli maschi. S’era sparsa la voce che la pioggia radioattiva rendesse sterili o impotenti, e anche mia madre cercò in tutti i modi di trattenermi in casa, ma andai lo stesso – l’ho già detto, ci vuole un motivo più serio del calcio per fermare un bambino che vuole giocare a calcio, altro che nube tossica sterilizzatrice.
Quando arrivo al campo stanno già piovendo gocce piccole, leggere, ma fitte e piene di uranio. Ho il Tango ESPAÑA 82 nella borsina e le scarpette a sei tacchetti già ai piedi, la casacca dell’Aston Villa, i calzettoni abbassati, alla Sivori, e una gran fifa che non venga nessuno.
S’ode, fragrante e mistico, il “crunch” dei miei tacchetti che rimbalza sulla parete della chiesa e mi ritorna più nitido, leggermente amplificato, con le armoniche quasi boscose della pioggia compatta a far da sfondo sonoro.
È l’ouverture della sinfonia del Calciatore, eco di tacchetti sul duro – che hanno il suono epico del preludio – e ritmica pluviale, un ensemble tra i più emozionanti al mondo.
Mi sto concentrando su tali considerazioni per cercare un diversivo al fatto che sono al campetto da solo. Fosse stato un giorno qualunque, avrei eseguito tranquillamente, anzi volentieri più d’ogni altra cosa, il mio Rito Esoterico, ma non avevo i quaderni, e poi era sabato e ci tenevo – nessuno sa quanto – a giocare coi ragazzi.
Aspetto ancora e poi ancora, non può arrivare più nessuno ormai e la pioggia che fa male alle palle me la sono presa tutta io.
Mi trovo già al campo, però e 1) non farò certo la figura di fronte ai miei di essere stato l’unico nàdero a uscire di casa, pertanto devo restare almeno un’altra oretta, per dar la sensazione della partita, 2) anche senza i Testi Sacri, posso creare comunque un Fuori Programma Esoterico intrigante.
Quindi son lì che architetto la funzione del giorno e vedo spuntar fuori, dal nulla, bardatissimo, chi ti vedo? Nientepopodimeno che Andrea Grassi, stoico, invulnerabile, Grandioso, Sorprendente come non mai!
Feci finta di non averlo quasi visto, dandomi l’aria di chi si trovasse lì per caso. “Hey, ciao Andrea, cosa ci fai qui? non lo sapevi? non c’è oggi, la partita; io avevo voglia di provare due punizioni ed ero venuto così, cinque minuti, m’hai trovato per caso, fratello!”
Da sotto il cappuccio della giacca a vento blu, vinta nel fustone famiglia del Dixan, uscì una voce quasi paterna, molto meno catarrosa del solito.
“Sapevo che tu ci venivi lo stesso, non potevo lasciarti qua da solo”.
Risposi che con la pioggia le nuove porte non marcivano più, poi scatarrai dal naso, come m’aveva insegnato mio padre, e corsi a prendere il pallone.
Ero talmente felice che mi tremavano un po’ le mani.
Passa il tempo minimo per far due tiri di circostanza, a dare almeno un senso alla nostra presenza lì e – mi dissi, con piglio un po’ teatrale, “sogno o son desto?” – compare, dal vialetto che costeggia le vigne del prete, più eroico ancora di me e Grassi, perché terzo come arrivato, ma primo come follia (beati gli Ultimi che saranno i Primi) il magico, l’inimitabile, l’Implacabile goleador dei pollai maiaticesi, l’Azzon Faier.
L’Azzon era la nostra manna dal cielo, ci raggiungeva a passo calmo e ritmico, con un sorrisino di complicità che fu immediatamente ricambiato da me e Grassi. Sapevamo di farla un po’ “azzardata”, eppure alla fin fine avevo avuto ragione su una questione per me fondamentale, e l’Azzon ne fu la prova vivente: nonostante Chernobyl, il numero di giocatori minimo per fare almeno una “tedesca” o una “romana”, al campetto di Maiatico, lo raggiungevi sempre. Questo voleva dire unione.
L’Azzon aveva una faccia di luna, di rosa pallido da lattante, una cupoletta di capelli marroni e una frangettina tutta pari pari. Era alto più di Grassi e un po’ sovrappeso, aveva piedini piccoli, sproporzionati rispetto al resto del corpo, con i quali addomesticava il pallone che era un piacere. I gol da memorare da lui segnati al San Nicolò erano già storia, e ci giocavi insieme volentieri perché, forse, non si era troppo amici, ma saliva al campo lo stesso, per il puro piacere del calcio. Quel giorno facemmo due o tre “romane” – chi fa gol va in porta, modalità di tiro libera, senza punteggio – e una “tedesca” – chi non fa gol va in porta, valgono solo i tiri al volo (sennò si va in porta) e vince chi arriva a 11 punti (un punto per il gol di destro, 2 punti per il gol di sinistro, 3 punti per il gol di testa, 4 per quello di tacco, cinque per la semirovesciata e 6 per la rovesciata, anche se nessuno ovviamente fece mai 6 punti in un colpo solo…).
La “tedesca” durò una vita, perché Grassi ciccava tutti i cross e non riuscivi mai ad aggiustare il tiro di volo.
Tornammo a casa col buio, il classico buio blu, elegantissimo, con toni profondi, che avvolge Maiatico nelle serate terse, quand’è schiarito dopo la pioggia e l’aria sa veramente di buono.
Un cielo così chic era il teatro ideale per celebrare in grande stile un felice ritorno, perentoriamente siglato dal nobile gesto – senza pari – d’essermi a fianco nella follia d’un pomeriggio radioattivo, un ritorno che poteva anche dirsi “la resurrezione del LUPO”.
Grafica: Nikko Amandonico