Chernobyl e l’uomo bionico – Maiatico FC 1983 – V episodio, seconda parte

Qualche settimana dopo infatti mescolai il mio sangue con quello del Lupo in un delirante rituale da minorenni tossicodipendenti.
Si stava facendo un gran partitone e io avevo segnato quello che battezzai “gol alla Luchén” in un incontro memorabile contro i Sardi, formazione arcigna, elegante nel disimpegno, impreziosita dalla classe dei fratelli Martis.
Schiero il Vincio, il Férda, Grassi, O’Mora, l’Azzon e me.
È una vera partita di calcio, loro fanno girare la palla ch’è una forza, tatticamente ci sovrastano e il primo tempo è quasi un torello, vanno in gol allo scadere con una splendida azione corale, avvolgente.
La ripresa mise in evidenza una grande dote di cui disponevamo, il saper essere camaleontici, da che cominciammo ad aspettarli per creare scompiglio con repentine ripartenze. Il pareggio arriva al 18’: su una ribattuta di Salis interviene il Vincio che, al solito, era uscito dai pali e con un tap in al volo (ohilà!) indirizza una staffilata rasoterra che s’insacca tra palo e portiere (siamo ammirati per la prodezza, ma nessuno si avvicina al Vincio per abbracciarlo, per il solito motivo ch’era malvoluto).
La gara rimane aperta fino ai minuti finali quando mi invento, appunto, il “gol alla Luchén”. Ricevo palla a centrocampo dal Férda, spalle alla porta, col fiato di Melis sul coppino, finto a sinistra, poi scatto a destra e brucio Melis dirigendo decisamente verso l’area avversa, al limite scocco una sciabolata di mezzo collo interno destro che si stampa dritta sotto l’incrocio, alla destra del portiere impalato come un cristo.
Esultano gli altri, io no, questo gol me lo gusto da dentro.
Alla mia prodezza seguì quella della Juve che ci giungeva via etere: 1-0 al Milan (gol di Laudrup su assist di Briaschi), in contemporanea con la clamorosa sconfitta (2-3) della Roma all’Olimpico con il Lecce (già retrocesso), scudetto praticamente vinto alla ventinovesima giornata.
Ero felice come Tardelli al 69’ di Italia-Germania ’82.
Poi don Don, al pari d’un sant’uomo hindu, ci concesse un Darshan speciale perché aveva ricevuto una megadonazione dalla Parmalat: merendine, creme e budini, biscotti, succhi di frutta, cannoli e via dicendo – roba da spedire alla Caritas, per i poveri – ma ce la imbandì tutta quanta senza risparmiarsi nulla (era un prete che ci sapeva veramente fare). Rendemmo onore agli sconfitti mangiando e rimangiando come si fa in campagna – pace ai poveri – allegandoci anche una bella scodella di Malvasia del parroco che i sardi non si fecero pregare d’attingere.
Mancava solo un bel tramonto, di quelli che, esclusiva, Maiatico in primavera ti sa servire. Detto e pronto: Fili d’oro dei Colli in brezza al profumo di fiori di ciliegio.
Fu in quel momento bucolico che, accovacciato nel vialetto, con la gobba appoggiata a un abete, il Lupo mi comunicò, per l’ennesima volta, il suo desiderio/chiodo fisso.
“Facciamo un patto di sangue – disse, scuotendo un po’ il muco dalla glottide –
come Clint Eastwood e Orso Bruno per difendersi insieme dai bianchi malvagi”.
Grassi aveva la mania dei patti di sangue e aveva cercato, in tempi diversi, di coinvolgere più o meno tutti in questo esperimento, indirizzandosi con insistenza verso chi, a seconda dei momenti, gli dava più corda.
Stavolta – eravamo tutti un po’ alterati dalla Malvasia – toccò a me.
Il Lupo puzzava di sedimento vinoso e aveva un luccicore negli occhi, disse che l’ubriachezza era foriera di rituali, come quando gli Apaches fumano la pipa. Estrasse il coltellino svizzero e si aprì una bella fenditura purpurea sul palmo della mano destra.
Pensai che era pazzo.
Gli dissi di starmi lontano, indietreggiando, mentre m’incalzava col taglierino in mano e perdeva la pazienza dicendo: “Fermo! adesso lo fai, oh!”
Cercai protezione dietro la schiena del Férda che, divertito come gli altri, fu preso da un raptus di demenza – era dell’Acquario, boh… – e, invece di farmi da scudo al Lupo che sanguinava a getto continuo e si stava incazzando, mi prende le braccia con le sue manone unte, mi fa una leva e…oppalà, mi ritrovo a terra immobilizzato col Férda che sbava: “Duài! Aduesso! tagliualo, tagliualo, te lo tiengo fuermo io”.
La situazione era degenerata nel puro manicomio, dovevo fermarli:
“OK!!! – urlai deciso cercando di divincolarmi – okèi, cazzo! Fratello di sangue sì, inchiappettato però no, eh!”
Lasciarono che mi rialzassi in piedi: “Un attimo, devo concentrarmi, adesso lo faccio, giuro!”
Attendevano famelici, tutti quanti intorno a me, che prendessi il coraggio a due mani. Il Lupo mi porse il temperino: “Forza, fratello. Fallo!”
La situazione era senz’uscita. Pensavo ormai di dovermi rassegnare contro ogni mia volontà quando, ispirato per grazia di San Nicolò Protettore dei Giocatori Buoni, ricordo improvvisamente di avere un piccolo taglio appena rimarginato sul ginocchio, mi gratto via la crosticina di coagulo, facendo affiorare una goccia di sangue vivo sulla pelle, afferro di slancio la mano di Lupo e la premo sul mio ginocchio per qualche secondo, lo lascio e, prima che possano averci capito qualcosa, m’apro una via di fuga verso il Garelli.
“Adesso – rivendico montando in sella – siamo fratelli di sangue, e non rompetemi più le palle!”
Povero Grassi, suo malgrado dovette accettare retroattivamente la mia grave profanazione perché, anche se per un millesimo di millilitro di contatto, adesso eravamo fratelli di sangue, ed essendo io il minore, oltre che rispetto, mi doveva protezione a vita.
E fu fedele al patto, eccome!
Dimostrandosi senz’altro all’altezza di Clint Eastwood, qualche settimana dopo mi salvò letteralmente dall’impiccagione, guadagnandosi ovviamente croci al merito e stellette da ogni angolo del globo.
Aveva cominciato a bazzicare il campo, per impotenza nostra, tal Paolo Vicolo, un energumeno mostruoso che aveva la forza bruta ed era colpito da attacchi cronici di rabbia canina, con tanto di bava alla bocca e tutto il resto. Stando ai racconti del Vincio, era caduto dal balcone all’età di due anni e avevano dovuto rifargli una parte di cervello bionica, con delle vene flessibili in titanio. Per di più era strabico, e aveva un occhio di vetro all’interno del quale avevano posto un minimicroscopio in biancoenero che gli faceva apparire terribile tutto quello che guardava da vicino.
Aveva dei capelli fatti in casa, ispidi – ti davano una sensazione di artificiale, di angosciante – e delle strane cicatrici nel collo. Il Vincio ci aveva anche raccontato che erano stati i suoi genitori a lanciarlo dal sesto piano, perché era talmente brutto che avevano avuto una crisi depressiva acuta. Quando constatarono che aveva scampata la morte, si accanirono con violenza sul suo corpicino sfigurato ricucendolo e ripezzandolo con cattiveria e inserendogli il microscopio per rendergli infernale e terribile l’esistenza.
Egli crebbe nell’odio e nel terrore, sviluppando una nervatura e una muscolatura intrise di vibrazioni maligne, malcontrollate dalla metà funzionante di cervello bionico che non riusciva ad arginare gli impulsi assassini esalanti dalla sua aura demoniaca.
Il Vincio si era subdolamente finto suo amico e, dopo averlo riempito di moine, aveva cominciato a portarselo in giro come guardia del corpo, soprattutto per esser difeso dai nostri soprusi. E, ancor più viscidamente, lo aveva motivato alla brutto cane contro di noi, mettendoci in cattiva luce e giurandogli che al campo, durante le partite, non si faceva che ridere del suo occhio e dei suoi tubicini e della sua plastica facciale fatta con pelle di cane – in particolar modo con l’allevamento dei suoi stessi boxer, che di tanto in tanto venivano uccisi per procurargli uno strato fresco di epidermide.
Avevamo una paura bestia di lui, perfino il Férda che era grande e grosso e aveva due mani come badili, tutte tagliuzzate.
Grassi si atteggiava a papà della situazione fingendo di avere tutto sottocontrollo, ma in realtà anche lui strizzava.
La verità è che quando Paolo Vicolo, detto Paolone, saliva al campetto eravamo costretti ad accettare passivamente la sua presenza terrifica e nessuno osava opporsi. Altri due fatti erano certi: 1) il Vincio era ben felice della situazione, che lo vedeva finalmente intoccabile, sia calcisticamente (si metteva nei ruoli che prediligeva senza che nessuno potesse opporvisi), sia verbalmente (nessuno poteva più offenderlo), sia fisicamente (nessuno poteva più picchiarlo); 2) il Vincio l’avrebbe pagata cara.
Paolone era venuto a una partita contro la selezione Bifolchi (che aveva come capitano il Miodo, famoso per le sue mèches), per controllare che trattassimo il Vincio con riguardo, approvando le azioni a lui gradite con delle risate ferine, lancinanti, contronaturali. Per disapprovare invece bestemmiava, con la furia più grossa che poteva, che faceva alzare un vento grigio da cattivi presagi e nessuno osava dirgli niente e bestemmiava ancora più forte, davanti alla chiesa, e ti sembrava veramente un anticristo con tutte le carte in regola.
Contro i Bifolchi giocammo una partita penosa, contratti e condizionati dall’ombra incombente di quel bestio.
A un certo punto, eravamo sotto 1-2, nervosi come scimmie, il Vincio, che si era messo di prepotenza in attacco costringendo il povero Férda in porta, si mangia un gol già fatto, a porta vuota da un metro, ciabattando alto. Va da sé, lo mando esortativamente a fare in culo, ma Paolone schizza in campo senza che alcuno possa leggere i fatti, troppo rapidi nella loro successione: mi solleva alla bruttodio, come gli capita, spiattellandomi palle e fegato mi porta sotto un abete dove durante la partita, non visto, aveva legato un cappio fatto con una bella corda di canapa spessa tre dita, mi ci infila dentro la testa e ululando risa sardoniche mi fissa col suo occhio di plexiglass, da mezzo millimetro, cercando di carpire forse, nel flusso del mio sguardo, l’istante esatto della mia morte.
Poi caccia un urlo, a metà tra lo spaventato e il divertito: “Muori? Muori?!!”
In quei sette/otto interminabilissimi secondi non ebbi mai nemmeno un accenno lontano – o nascosto, o inconscio – di pensiero rivolto alla morte, e quando mi ritrovai tra le braccia del Lupo ch’era corso e mi teneva su ansimando d’ansia e di fatica, la mia prima attenzione andò al suo sudore che sapeva d’abbraccio, ed ebbi come la sicurezza intuitiva di aver odorato la sua energia sottile.
Ero sicuro che nel mio campo, con i miei amici intorno, non avrei mai potuto morire.
Quanto a Paolo Vicolo (e al Vincio), la storia non finisce qui.
Passata la prima, inevitabile paura, si scatenò una vera e propria rivolta contro l’energumeno. Mentre il Lupo mi aveva portato in canonica e stava decidendo col prete se chiamare o no i carabinieri, il Férda e altri inveivano contro Paolone, che era entrato in possesso di un falcetto trafugandolo dagli attrezzi da giardino di don Don e avanzava dritto verso la porta dietro cui eravamo noi, ignari.
Il Férda rischiò il collo, ma entrò in canonica prima di Paolone e riuscì a frapporsi tra lui e me (ero stato deposto dal Lupo sul divanetto vicino alla stufa a legna). Scattò in piedi anche il don. Mentre Paolone menava la falce per aria e bestemmiava come un leviatano, il Lupo lo colpì da dietro e riuscì finalmente a disarmarlo.
Preferivo non dire nulla, almeno per qualche giorno, ai miei genitori. Il prete e gli altri furono con me e si decise che quel fatto dovesse rimanere tra le tribune del San Nicolò.
Non ricordo sinceramente in che modo rendemmo inoffensivo Paolone, e nemmeno come fu portato via dal campo. So che il giorno dopo io, Grassi e il Férda ci presentammo a casa di Paolone, un rudere ricoperto di ortiche e con pochissime finestre buie, le quali – ti chiedevi – chissà che mondo di incubo nascondessero. Paolone aveva un fratello, Mussi, bianchissimo, magrissimo, in decomposizione costante, e aveva anche una sorella, che nessuno ha mai veduto.
Eravamo curiosi di sapere se anche lei era un mostro. Ne stavamo parlando, dopo che il Férda aveva messo a tacere con un bel calcione un cagnaccio decorticato che voleva sbranarci, in attesa che qualcuno venisse nel cortile ad accoglierci. Apparvero i due (!?) genitori di Paolone sulla porta (al primo sguardo, uomini entrambi) e capimmo subito che la possibilità di dare anche soltanto una piccola sbirciatina alla casa degli orrori ci era preclusa.
Suo padre era minuto, magro come un internato di Birkenau, con la gobba da deportato e la barba folta che gli nascondeva quasi tutta la faccia. Sua madre di barba ne aveva meno, ma la si intravedeva lo stesso lungo una mascella squadrata e sporgente; il suo tronco era cilindrico, come una specie di botte grossa; aveva capelli corti, biondi e grigi, molto unti e pettinati come un uomo, con la riga da una parte e da cui si staccavano grosse scaglie di forfora untuosa e giallognola; portava degli ampi occhiali, con lenti spesse, e aveva due braccia da macellaio.
Ci ascoltarono dalla soglia, che era leggermente rialzata rispetto al cortile e si raggiungeva tramite una scaletta. Né loro accennarono a volerla scendere, nè mai leggemmo noi nei loro occhi la benché minima concessione a poterci avvicinare.
Parlò il Lupo per me. Disse che avevamo deciso di perdonare Paolo, e che se lui non si fosse più avvicinato a noi, ai nostri motorini, alle nostre case, e soprattutto al campo da calcio il sabato, non saremmo andati a denunciarlo.
Ci ascoltarono senza ribattere, poi ci dissero di andare via e rientrarono nel buio scurissimo del loro rudere ricoperto di erbacce rampicanti e di ortiche, richiudendo la porta sul mondo di incubo da cui erano venuti.
Non rivedemmo mai più Paolo Vicolo.
Quanto al Vincio, due o tre giorni dopo gli feci fare i cento metri – cronometrati dal Férda – in 15”, a suon di calci nel culo.
Poi lo rivedemmo al campo solo raramente.
A me rimase un segno viola sul collo, dove Paolone aveva stretto la corda.
Oggi, vagamente visibile, mi fa un tantino più vissuto.
(Cover by Nikko Amandonico)