Il lupo – Maiatico FC 1983 Episodio 1 (Luca Farinotti)

I        (Il Lupo)

 

 

Il giocatore più brutto a vedersi che abbia mai calcato le gloriose zolle maiaticesi si chiamava Andrea Grassi. Il più anziano di tutti noi, era chiamato Lupo, per i suoi sopracciglioni; alto, gambe nerborute e torte, nodoso, gobbo, aveva sempre una leggera patina di bavetta alla bocca, da che salivoso.

Quando parlava sembrava avere un rigurgito di catarro sempre sul punto di eruttare. Eppure era il nostro capo.

Aveva l’odore dei grandi; fumava le sigarette e beveva vodka a collo, sotto il fienile del parroco, di notte, e anche per questo lo consideravi il tuo capo.

Fu uno dei tre fondatori-presidenti del campetto e faceva cose molto stupide, come cantare canzoncine fasciste imparate al convitto del Maria Luigia, o insegnarci coretti da stadio a sfondo sessuale che, dal suo punto di vista, dovevamo conoscere a memoria per poterli intonare al momento giusto, in risposta a un richiamo da branco che ogni tanto lui ci lanciava.

Ma nonostante ciò – forse proprio in virtù di ciò – quant’è vero Iddio, era il nostro Capo.

Venne al campo per quattro anni consecutivi con lo stesso paio di Adidas Old Style – quelle mitiche, bianche a strisce rosse e blu.

Quelle scarpe sono l’epifania totemica della nostra adolescenza, il simbolo della continuità, l’essenza dell’ineffabile sorriso del Buddha Adamantino.

Mai perirono, e noi con esse vivemmo.

Spesso, nel volgersi dell’indecente passo calcistico del Lupo, si squarciavano le suole, altre volte si scucivano le pezzature blu o le pezze delle pezzature, entravano pezzettini di terra, sassolini ad insinuarsi tra le dita nude del nostro Capo – mai l’ho veduto in mia esistenza disputare un incontro con dei calzettoni o calzette o quant’altro ai piedi, ma sempre rigorosamente scalzo, dentro a quelle chiaviche di scarpe – Lupo non si scomponeva, interrompeva l’incontro con l’autorità che è data al Capo, si portava a bordo campo ed estraeva dal suo sacchettino di plastica bianco la storica Aggraffatrice (trafugata anni prima dalla scrivania di sua madre, una ghignuta professoressa di francese), il nastro adesivo nero (sottratto al parco bricolage di suo padre, clone prodromico di Omer Simpson e appassionato di aeromodelli) e con estrema naturalezza aggiungeva l’ennesima graffetta alle sue immonde calzature sportive.

Assistevamo tutti in silenzio, rimanendo sulle nostre posizioni in campo.

Finito lo show, Lupo si riproiettava scoordinatamente sul terreno di gioco, sventolando le braccia verso chi aveva la palla e ululando catarroso: “BUONA!”

 

Il nostro stadio, il San Nicolò, era in cima a tutto, sulla vetta più alta dei colli salesi e sui nostri pensieri del sabato pomeriggio. Era lungo trentacinque metri e largo circa quindici, ma si stringeva fino a nove e mezzo verso la curva EST, allargandosi fino a sedici dalla parte opposta, curva OVEST.

Il terreno di gioco aveva delimitazioni naturali sfacciatamente adatte a disegnare uno stadietto calcistico. La curva OVEST – lì, dietro quella porta, sfumava il sole, ovvio – aveva come out un roveto alto quattro metri; quante e quante volte ci finiva il pallone, e quante ci finivamo noi – ti addentravi lentamente tra le spine, con meticoloso estro di contorsionista, evitando tutte le fronde acuminate, riuscendo a mettere tre dita sul Tango, il braccio completamente allungato, il corpo in bilico, un piede qua, uno di là, le unghie che con sforzo estremo tirano a sé il pallone, ecco, quasi ce l’ho e…ooopps!, un bel tonfo tra i rovi, ma anche con il culo completamente bucherellato continuavi a giocare, ci vuole ben altro per fermare un bambino che vuole giocare a calcio.

Quando Lupo, calciando con i suoi piedoni piatti, oltrepassava i quattro metri di spine, il pallone finiva nei campi arati sottostanti, che avevano un bel declivio di cinquecento metri, oppure, se il tiro era alto ma debole da non superare la strada, scivolava lungo la discesa fino a casa mia e allora si dovevano aspettare anche dieci minuti per riprendere il gioco.

 

Lato NORD: vista, in primo piano, del cimitero country di Maiatico (piccolo, rustico, fiorito, ci seppellimmo mia nonna in un funerale veramente western), sullo sfondo prealpi lombarde; anche le Alpi nei giorni veramente limpidi.

Ma veniamo all’impegnativo PARTERRE SUD, un vialetto grazioso orlato da una fila di abeti alti e grassi; era “fuori” quando la palla li oltrepassava finendo nel vialetto grazioso. Sul parterre si accomodavano spesso (…ma quali spettatori!) le borse, le tute smesse e sudate, le aggraffatrici e i nastri adesivi di Andrea Grassi, i Danone alla vaniglia e cioccolato, i fruttini Santàl alla pesca, pera e albicocca, l’Italjet verde del Bottio e il Fantic Motor 50 di Andrea Mora e– tempo al tempo – anche il mio Garelli marrone con la sella Chopper bianca e il retrovisore fatto in casa, utilizzando lo specchio da viaggio del beauty di mia madre, infine il Califfo 80 truccato di Tito, grigio e col tappo del serbatoio fatto con un tozzo di sughero, serie zigana.

 

CURVA EST: antistante il sagrato di ghiaietta villica, adibita al poco pubblico pagante, soprattutto genitori invidiosi che successivamente vennero ammessi a giocare; in quell’area i portieri erano più rilassati e gli attaccanti  più sereni; se tiravi alto, o di lato, o se facevi gol, anche, la palla rimbalzava sul muro della sagrestia e tornava in campo (perchè le “porte” mica avevano la rete); e allora lì, tutti a tirare, non come dall’altra parte, dove avevi sempre un po’ di timore di mandare il pallone ai “rovi”.

 

Per molti anni, dai miei nove ai miei dodici, il campo continuò a pulsare entro questi confini naturali, e anche le partite del dopo-dottrina, naturali e spontanee, restarono a tutti gli effetti ufficiose.

Il futuro San Nicolò, o Parrocchiale, non era altro che un campetto i cui pali delle porte venivano fatti con i guanti di Ugo Giovannotti  e il cappellino di Davide Salviani di qua, e con una felpa di Pavlén e un reggiseno – a dodici anni aveva due tette sconcertanti – della Sèvi di là. L’erba era soffice, curata, ma troppo alta e la palla, per l’appunto, aveva troppe vie di fuga.

Comunque, così era; l’inaugurazione avvenne il 12 febbraio 1983, in contemporanea con CIPRO-ITALIA, valevole per la qualificazione agli Europei 84 (risultato finale 1-1: 47’MAVRIS, 57’PATIKKIS autorete). L’Italia schierava Zoff tra i pali, Gentile e Collovati marcatori, Cabrini fluidificante di sinistra, Scirea libero, Causio sulla fascia destra, Tardelli e Oriali a centrocampo, Antognoni in cabina di regia e Rossi e Graziani di punta (CT Bearzot). Quel giorno erano tutti concordi nel trovare la causa di una prestazione penosa della Nazionale nell’assenza di Bruno Conti, ma da lì in poi l’Italia cominciò a pagare il Karma della vittoria al Mundial (partita comprata al Camerun, lo sanno tutti) e inanellò anni e anni di prestazioni altrettanto penose.

Si guardò la partita invece di fare catechismo, a casa di don Don che al termine, meraviglia delle meraviglie, ci regalò un PALLONE DA CALCIO “Elite” (!), di quelli che volano, oltre che una stecca di Marlboro rosse.

Ci disse che potevamo andare nel prato davanti alla chiesa.

Eravamo in dieci e giocammo fino a quando fece molto buio.

Tutti i sabato pomeriggio che seguirono, fino ai miei quattordici anni, li passai al campetto a giocare al calcio. Si facevano mezz’ora di catechismo e poi tre ore di partita; di solito vinceva chi arrivava a dieci, ma appena una squadra raggiungeva i dieci gol si prorogava a venti e poi a trenta, e anta, e anta, secondo la saggia direttiva del Lupo che, scatarrando, faceva le squadre e teneva lo score.

A metà pomeriggio arrivava il don, con le merendine Mister Day e tutto il resto; se non usciva lui perchè aveva da fare con qualche esorcismo, ci portava tutto quanto L’Elena, la perpetua, che andava via piegata in due, grossa, con tanto di baffi e tanta barba bianca così sul mento, e parlava solo dialetto salese, con rabbia, come fanno tutti i vecchi dei paesi che han sofferto; quando diceva che ci voleva bene lo faceva col doppio della rabbia, maledicendo anche i cani – l’abbiam sepolta anche lei nel cimitero country, ma fu un funerale meno western di quello di mia nonna, perchè mancavano il vento e i nuvoloni; invece era una bella giornata e c’era tanta gente che voleva bene al prete, perchè li aveva esorcizzati oppure semplicemente perdonati.

 

Un giorno salgo al campo, che era a 274 metri da casa mia (contati con i passi, più volte), lo osservo e lo cammino, gli domando, ascolto.

Mi dà: odore erboso, vista appagante, semplice ma non banale tutto il contorno, chiede ai miei piedi di calpestarlo, di correrlo, di giocarlo, di promuoverlo, di renderlo campo da calcio.

Accetto senza riserve.

Ne parlai al nostro Capo e a Tito: decidemmo di credere nel buon cuore della Comunità e, la domenica successiva durante la Messa, esponemmo in bella vista una cassettina per offerte, dinanzi al portale della chiesa – OFFERTE PER COSTRUZIONE  CAMPO DA CALCIO PARROCCHIALE.

Raccogliemmo soltanto una banconota da 1000 £ (messa da me, perché il Capo era tirato come un tamburo, e Tito spendeva tutta la paghetta settimanale, e anche quello che fotteva nel portafoglio di sua mamma, in pacchetti di figurine Panini, che io gli fottevo a mia volta dalla cartella, durante la ricreazione) e qualche monetina offensiva.

La sera, a casa, non eran bastati i cappelletti di mia mamma e il faccino frugolino della mia sorellina a darmi sollievo. Ero molto triste e mugugnai il problema a mio padre e al suo socio; piangi e piangi e scopri d’amblè che morivano tutti e due, quei trentacinquenni infidi, dalla voglia di venirci anche loro, il sabato, a giocare. Ottenni subito che il giorno dopo venissero a montare delle porte e a tirar su una specie di recinzione intorno al campo. In cambio, li avrei ammessi a giocare con noi. Che bravi papà.

Quando fui rientrato da scuola c’erano già due porte nel campo, costruite con paletti di legno (duri come la pietra- chiedi al Capo le capate!) piantati ben dentro al terreno, e un altro paletto orizzontale inchiodato sugli altri due, la traversa. Era stata messa anche una parte di recinzione e gli occhi mi diventarono enormi.

Immagina un bambino che vede realizzato l’impossibile.

L’altra grande novità era l’ingresso nella tribù del sabato pomeriggio di due omoni grandi grandi.

Claudién, detto Arthur Antunes de Coimbra, o Arthur, o Zico, il socio di mio padre, era grosso quasi quanto lui, ma più taurino (mio papà tendeva al gattone ciccione), assomigliava a Renato Pozzetto e portava due baffi, tipo calabrese emigrato in Germania, che facevano coppia con i ricciolini anni settanta alla Mimmo ’O Meccanico.

Le sue caratteristiche tecniche:

1)Velocità – zero: rimaneva fermo immobile in mezzo metro quadrato di campo, a portata di tiro (non si spostava mai da lì).

2)Controllo – scarsissimo, ma quando gli arrivava il pallone nessuno aveva il coraggio di andare a marcarlo (un giorno gli andò sotto il Salvo, Claudién lo prese e lo scagliò lontano, liberandosi al tiro, mirò alla faccia del Vincio, che difendeva i pali, e scaraventò una bomba atomica nella porta vuota).

3)Senso del gol – segnava sempre così, Claudién, e aveva anche la spudoratezza di esultare con un sorrisone da quindicenne grande, grosso e ritardato.

4)Tiro – aveva un tiro talmente forte che spaccò almeno tre o quattro camere d’aria di palloni nel corso degli anni (con la spinta di quei coscioni tirava delle vere autentiche canelle).

Mio padre era un bestione di centotrenta chili, non giocava mai in squadra con il suo socio perchè avrebbero intimidito troppo i più piccoli.

Ero contentissimo che venisse al campo; non vedevo l’ora di lasciarlo sul posto – finta a destra, finta a sinistra, dribbling secco e me ne andavo felice come una pasqua sulla fascia.

Un giorno arrivò baldo e raggiante infilato in una bella tutina nuova tutta gialla, un bel canarino gigante. Aveva piovuto a secchiate e il campo presentava pocce fangose dappertutto. Io e Mora eravamo a centrocampo, con gli altri, a far le squadre, quando sentimmo un boato sordo. Ci voltammo tutti di scatto verso la Curva Ovest.

Mio papà, furtivo e nonscialante, stava cercando di riassestare delle zolle di melma, col piede, e il suo piumaggio di limone fluorescente aveva una bella riga color merda che partiva dalla tetta destra e scendeva fin lungo il prosciuttone sinistro. Rimanemmo attoniti, come sempre sulle nostre posizioni, mentre serio e noncurante, togliendosi i pezzi di fango dai baffi blaterava: “Co’ gh’ìv da rìdor? A són mìa caschè!”

In quel periodo mio padre mi insegnò anche a soffiarmi il naso da calciatore.

Io non avevo molta pratica di certe spiccerie adulte, così mi spiegò che “per svuotarmi il naso velocemente (avevo sempre la candela), senza perdere la concentrazione sulla partita”, avrei dovuto chiudere un buco del naso premendolo con il pollice e intanto soffiare forte con l’altro, poi viceversa, e il catarro sarebbe volato per terra, liscio come l’olio.

A parte il fatto che ero atterrito da quel gesto, perchè mi sembrava disgustoso che il catarro di tutti cadesse sul campo dove si giocava e, spesso, si ruzzolava; e se fossi scivolato sul catarro di Grassi? o, ancora peggio, su quello di Paolo Vicolo, che aveva la rabbia canina? Comunque, il vero problema è che ogni volta che provavo a scatarrare dal naso nel modo suddetto, mi rimaneva tutto il conquibus nelle mani; i tentativi di scrollarmelo di dosso agitando le dita risultavano vani, così fingendo di scivolare a terra cercavo di fregare le mani sull’erba, ma invece di staccarsi quel maledetto piastricciume faceva da collante e mi rimaneva in mano tutto quello che toccavo.

Un giorno, ero in porta, cercai di raschiare la mano sul palo di legno e mi si conficcarono ventidue schegge sul palmo e due tra il pollice e l’indice. Da quel momento decisi di pulirmi sulla maglietta; almeno, lì sopra, essiccava e buona notte. Per un po’ di tempo mia madre si ritrovò tra i panni sporchi magliette che sembravan  fazzoletti da naso abusati, e mi guardava male.

Vicino al corner tra la Curva Est e la Tribuna Nord c’era una fantastica fontana – di quelle che si trovano nei paesi di montagna – dove tutti i ciclisti che passavano di là si fermavano a rinfrescarsi il coppino, adagiando la bici all’ombra degli abeti (gittava acqua fresca, quella del pozzo).

Un pomeriggio stavo aspettando il mio turno per bere, nell’intervallo di un incontro Bambini-Adulti. Prima di me c’era mio papà. Gorgheggiava. Quando ebbe bevuto, scatarrò dal naso, depositando vicino al mio piede l’agglomerato più verdastro, oleoso e marcio che avessi mai visto. Era un sovraestratto surmaturo di incrostazioni bronchiali.

È stata una delle quattro volte in vita mia in cui ho vomitato l’anima – la prima, avevo poco più di sei anni, mi ricordo affacciato al finestrino, tornando da Santa Caterina Valfurva con i miei genitori, dove avevo mangiato un chilo di bresaola affumicata e, per la prima volta, avevo bevuto vino (Inferno Riserva di Rainoldi del ’73, forse), mentre gli schizzi del mio vomito centravano come tanti piccoli missili Patriot il parabrezza dell’auto che ci stette dietro tutto il tempo, povera alfasùd, lungo i tornanti valtellinesi; da citare poi, brevemente, i tre bicchieri di Nebbiolo in purezza delle vigne di Angelo Gaja, bevuti a casa della tettevole Sèvi, mentre lei era chiusa in bagno con Tito a spassarsela, il contenuto dei quali bicchieri riversai sullo zerbino di casa mia (avevo forse quindici anni ed era la terza volta che bevevo vino); da memorare in pompa magna le quattro bottiglie di Verdicchio dei Castelli di Jesi Fazzi Clandestino che bevvi con il mio amico Darko Polfen, di padre aachenese, per festeggiare il mio primo e unico 7 in fisica di tutta la mia abominevole carriera scolastica (quel giorno, da Borgo delle Orsoline a viale Romagnosi, seicento metri in linea d’aria, semafori esclusi, vomitai 6 volte lungo il ponte sulla Parma, cominciando proprio dall’ingresso della mia scuola: stavo bene come un papa); e infine, l’episodio del San Nicolò, mio padre oscenamente eruttante, i miei polmoni aperti, l’elemento acqua che scorreva, un contrasto troppo forte: fu quella la mia esperienza primigenia dell’orrido, stavo diventando grande.

Il lupo, Lo Stadio più bello del mondo, luca farinotti, Maiatico Football Club

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