La rosa del Maiatico FC – VI Episodio, prima parte

VI     (La rosa del Maiatico F.C.)

Dopo il periodo di lavoro pesante che precede sempre l’estate, finalmente tornarono in campo anche i grandi.

Si parla di giocatori del calibro di Gianyuri Mora, di mio padre, di Claudién e del papà del Cristian, di Asfodelo e di Alemando Magistri, una serie di campioni sottratti in erba da genitori troppo severi a una fulgida e sicura carriera da calciatori professionisti.

Gianyuri Mora, il “babbo” di O’Mora, era, tatticamente, il tipico beppefurino della situazione anche se, come stile di corsa, assomigliava ad un più recente soldatinodilivio e, come tocco di palla, ricordava un danielezoratto versione veloce.

Era un uomo buffo, per cui nutrivo una spontanea simpatia.

Una bella giornata di sole, tersa, lo vidi da lontano, di fronte al suo villone in costruzione(io e il Férda eravamo sul motorino). Mi incuriosì perché sembrava posizonato in una strana figura di Tai Chi o Yoga: ginocchio destro flesso in avanti, gamba sinistra tesa all’indietro, bacino piegato in avanti, completamente, colonna vertebrale perfettamente in linea col terreno, spalle in torsione.

“Vót vèdor che ai comunista a gh’ pièsa fèr ’l Yòga?”, urlai al Férda, dirigendomi a tutta velocità verso il prato antistante il villone. Quando lo raggiunsi, ci salutammo ed io lo sollecitai a una breve conversazione di circostanza. Lui gentilmente ricambiò, senza uscire dalla rigorosa torsione yogica. Andammo avanti in chiacchiere – del tipo dove fosse suo figlio, come stesse sua moglie e cose di quel genere – per circa un minuto o due, quando il Férda, seduto dietro di me, mi sussurra:  “Ma nuon hai vuisto il cuazzo?!”

Trasalii. Abbassai lo sguardo.

Il signor Gianyuri stava orinando allegramente in direzione delle mie scarpe, e quella era la sua postura esecutiva. Non si smosse di un centimetro, per non metterci in imbarazzo, e continuò il tutto, come se stesse facendo veramente yoga. Lo fissai ammutolito mentre terminava d’innaffiare disinvoltamente i nostri piedi, che avevano avuto l’unico torto di finire involontariamente in traiettoria, e lo guardai uscire dalla torsione, raddrizzando la schiena.

Mi accomiatai, salutò garbatamente e  mi portai verso casa del Férda a velocità riflessiva. Anche il Férda stava riflettendo: dopo gli amplessi delle sue capre e le palle di suo zio Pierino, quello che aveva visto sarebbe diventato il suo terzo grande vanto da raccontare agli amici.

A parte questo episodio grottesco, con Gianyuri ci fu sempre un bel dialogo, anche se lui pretendeva d’aver ragione in ogni discorso, concludendolo con la frase: “As sèma capì, eh?”.

Molto spesso era lui a non averci capito tanto del ragionamento che era uscito dalla sua stessa bocca, ma noi gli si diceva di sì, come a tutti i papà.

 

Maiatico risplende di un’energia calcarea, delicata.

Non ha la forza del deserto arso, del mare assolato e della roccia bianca levigata che ti prende il fiato. Ti carezza, però, nelle poche giornate blu, di cristallo puro, che profumano di bosco, quando si dice “la giornata ideale per giocare al calcio”.

Ne ho viste poche, bastano per sempre.

Le ho giocate con i miei amici migliori, con i loro padri e con il mio.

Ai papà, su al campetto, gli facemmo dei culi come una capanna durante le sfide ardenti dell’estate grossa e vigorosa, piena di lucciole d’oro.

Penso al viso di uno che gioca a calcio, tamarro strapagato e incapace di coniugare il verbo essere o direttore di banca panciutello che gioca contro i suoi figli.

È magico.

Ogni momento, ogni finta, ogni tiro è magico.

L’espressione di chi lo esegue è magica, ti racconta il Cosmo con una perfezione al micron subatomico, ti racconta la faccia  dell’Impulso Divino quando ha fatto il Creato e, fotogramma dopo fotogramma, ti ritrovi davanti la storia dell’Universo.

Sul viso di ogni calciatore in azione leggi una scintilla primordiale assolutamente geniale, unica, stravagante, di pura coscienza creativa. Poi c’è una scala infinita di manifestazioni fenomeniche di tale impulso, dal sublime all’indicibilmente turpe, dal ricamo alla Roberto Baggio alla scarpata all’Andrea Grassi, ma guardane solo la faccia e subito cogli il mistero della vita, la genesi del mondo e di tutte le sue forme: avvicini l’Uno, considerando il Tutto, il piede a banana di Gianyuri Mora che calcia abbondantemente a lato diviene la firma indissolubile del Sublime.

Giocando coi grandi imparavo questo, perché facevano proprio pena, e quante volte li abbiamo lasciati andare in vantaggio per render più bella la partita: guardavo le loro facce, erano figli della luce.

Alemando Magistri, un lettighiere, sottosegretario di qualche vicesegreteria di qualche ufficio suboperativo del PCI, era molto amico di Gianyuri, nonché idolo sportivo di Andrea Mora, che ne celebrava le potenzialità funamboliche, rimaste a tutt’oggi inespresse.

Asfodelo era lo zio grasso di Ugo Giovannotti e si autoconvocava tutti i sabati, senza invito, dando a chiunque un’ingiustificata confidenza – autotributo a nostalgici trascorsi di rugbista ignoto. Aveva però due figliolette che venivan su bene e per questo poteva sempre tornarci buono, e così fu inserito in rosa.

Il papà del Cristian, infine, aveva due pinne al posto dei piedi, ma poiché fisicamente prestante, era di diritto in squadra (in più, saliva al San Nicolò con una bella moto, non ricordo se un’Honda, una Laverda o un’Ancillotti, e faceva sempre la sua bella figura).

Salvo indisponibili, i Seniores avevano in forza i suddetti giocatori, con alcuni innesti estemporanei (amici o zii) che di volta in volta venivano cartellinati a nostra insaputa, e che noi chiamavamo “gli Oriundi”.

 

Dal nostro canto, con la cessione del Vincio, si era profilato il problema-portiere e per un lungo periodo giocammo senza un fisso di ruolo, alternandoci a difendere i pali.

L’Azzon era partito per un lungo viaggio alla ricerca di Fulaia, cosicché ci ritrovammo a mettere in campo una formazione tipo praticamente forzata, ma che, con il trascorrere degli anni, diventò leggendaria: Tito, Bottionòi, Lupo, O’Mora, Férda, Luchén.

Ne seguirono incontri battagliati, estenuanti, segnati da quel tipico senso di ribellione che si prova verso gli adulti e che in campo si trasformava in grinta e sano furore agonistico.

Non furono meno sentite, anche se in un altro senso, le gare giocate contro le formazioni estere che continuavano, imperterrite, a lanciarci sfide all’ultimo gol. Tuttavia, come già ho ricordato, nessuno poté mai batterci in casa, e, spesso, dominammo il campo con il cipiglio degli atleti superiori.

 

Occorrerà qui aprire una breve parentesi – mi perdonerai – al fine di presentare come si deve le schede tecniche degli Alfieri Indomiti che resero nei secoli glorioso il Maiatico Football Club 1983.

(continua)

Lo Stadio più bello del mondo, luca farinotti, Maiatico

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

© Luca Farinotti. All rights reserved.