Edizioni Clandestine, 2007
Vincitore Premio Microeditoria di Chiari 2008 (categoria “Romanzo di formazione”)
Per potere di pura immaginazione, o forse per miracolo, un gruppo di ragazzini riesce nell’intento di trasformare un campetto di calcio parrocchiale di campagna in uno stadio a tutti gli effetti, per quanto minuscolo e anonimo.
Ogni sabato pomeriggio il surrealistico S. Nicolò diventa così la sede del pittoresco Maiatico Football Club 1983, facendosi teatro di scontri epici tra i giovanissimi soci fondatori e i loro grotteschi compagni di gioco. Lontano dai riflettori della città, in un tempo fatto di gaie merende e battesimi di sigarette, ma soprattutto di innocenti fantasie di gloria affidate a un pallone, si cementerà il senso di un’amicizia forte e indissolubile, come il legame cocente del narratoreprotagonista nei confronti dei posti e dei volti che lo hanno visto nascere, crescere e sognare.
Il racconto di un luogo “mistico” in cui una comunità prende forma e si rinsalda. Un libro divertente e disinvolto, in cui l’autore mescola semplicità ed autoironia, elegia e cinismo, originale anche dal punto di vista del linguaggio.
ESTRATTO
I (Il Lupo)
Il giocatore più brutto a vedersi che abbia mai calcato le gloriose zolle maiaticesi si chiamava Andrea Grassi. Il più anziano di tutti noi, era chiamato Lupo, per i suoi sopracciglioni; alto, gambe nerborute e torte, nodoso, gobbo, aveva sempre una leggera patina di bavetta alla bocca, da che salivoso.
Quando parlava sembrava avere un rigurgito di catarro sempre sul punto di eruttare. Eppure era il nostro capo.
Aveva l’odore dei grandi; fumava le sigarette e beveva vodka a collo, sotto il fienile del parroco, di notte, e anche per questo lo consideravi il tuo capo.
Fu uno dei tre fondatori-presidenti del campetto e faceva cose molto stupide, come cantare canzoncine fasciste imparate al convitto del Maria Luigia, o insegnarci coretti da stadio a sfondo sessuale che, dal suo punto di vista, dovevamo conoscere a memoria per poterli intonare al momento giusto, in risposta a un richiamo da branco che ogni tanto lui ci lanciava.
Ma nonostante ciò – forse proprio in virtù di ciò – quant’è vero Iddio, era il nostro Capo.
Venne al campo per quattro anni consecutivi con lo stesso paio di Adidas Old Style – quelle mitiche, bianche a strisce rosse e blu.
Quelle scarpe sono l’epifania totemica della nostra adolescenza, il simbolo della continuità, l’essenza dell’ineffabile sorriso del Buddha Adamantino.
Mai perirono, e noi con esse vivemmo.
Spesso, nel volgersi dell’indecente passo calcistico del Lupo, si squarciavano le suole, altre volte si scucivano le pezzature blu o le pezze delle pezzature, entravano pezzettini di terra, sassolini ad insinuarsi tra le dita nude del nostro Capo – mai l’ho veduto in mia esistenza disputare un incontro con dei calzettoni o calzette o quant’altro ai piedi, ma sempre rigorosamente scalzo, dentro a quelle chiaviche di scarpe – Lupo non si scomponeva, interrompeva l’incontro con l’autorità che è data al Capo, si portava a bordo campo ed estraeva dal suo sacchettino di plastica bianco la storica Aggraffatrice (trafugata anni prima dalla scrivania di sua madre, una ghignuta professoressa di francese), il nastro adesivo nero (sottratto al parco bricolage di suo padre, clone prodromico di Omer Simpson e appassionato di aeromodelli) e con estrema naturalezza aggiungeva l’ennesima graffetta alle sue immonde calzature sportive.
Assistevamo tutti in silenzio, rimanendo sulle nostre posizioni in campo.
Finito lo show, Lupo si riproiettava scoordinatamente sul terreno di gioco, sventolando le braccia verso chi aveva la palla e ululando catarroso: “BUONA!”
Il nostro stadio, il San Nicolò, era in cima a tutto, sulla vetta più alta dei colli salesi e sui nostri pensieri del sabato pomeriggio. Era lungo trentacinque metri e largo circa quindici, ma si stringeva fino a nove e mezzo verso la curva EST, allargandosi fino a sedici dalla parte opposta, curva OVEST.
Il terreno di gioco aveva delimitazioni naturali sfacciatamente adatte a disegnare uno stadietto calcistico. La curva OVEST – lì, dietro quella porta, sfumava il sole, ovvio – aveva come out un roveto alto quattro metri; quante e quante volte ci finiva il pallone, e quante ci finivamo noi – ti addentravi lentamente tra le spine, con meticoloso estro di contorsionista, evitando tutte le fronde acuminate, riuscendo a mettere tre dita sul Tango, il braccio completamente allungato, il corpo in bilico, un piede qua, uno di là, le unghie che con sforzo estremo tirano a sé il pallone, ecco, quasi ce l’ho e…ooopps!, un bel tonfo tra i rovi, ma anche con il culo completamente bucherellato continuavi a giocare, ci vuole ben altro per fermare un bambino che vuole giocare a calcio.
Quando Lupo, calciando con i suoi piedoni piatti, oltrepassava i quattro metri di spine, il pallone finiva nei campi arati sottostanti, che avevano un bel declivio di cinquecento metri, oppure, se il tiro era alto, ma debole, da non superare la strada, scivolava lungo la discesa fino a casa mia e allora si dovevano aspettare anche dieci minuti per riprendere il gioco.
Lato NORD: vista, in primo piano, del cimitero country di Maiatico (piccolo, rustico, fiorito, ci seppellimmo mia nonna in un funerale veramente western), sullo sfondo prealpi lombarde; anche le Alpi nei giorni veramente limpidi.
Ma veniamo all’impegnativo PARTERRE SUD, un vialetto grazioso orlato da una fila di abeti alti e grassi; era “fuori” quando la palla li oltrepassava finendo nel vialetto grazioso. Sul parterre si accomodavano spesso (…ma quali spettatori!) le borse, le tute smesse e sudate, le aggraffatrici e i nastri adesivi di Andrea Grassi, i Danone alla vaniglia e cioccolato, i fruttini Santàl alla pesca, pera e albicocca, l’Italjet verde del Bottio e il Fantic Motor 50 di Andrea Mora e– tempo al tempo – anche il mio Garelli marrone con la sella Chopper bianca e il retrovisore fatto in casa, utilizzando lo
specchio da viaggio del beauty di mia madre, infine il Califfo 80 truccato di Tito, grigio e col tappo del serbatoio fatto con un tozzo di sughero, serie zigana.
CURVA EST: antistante il sagrato di ghiaietta villica, adibita al poco pubblico pagante, soprattutto genitori invidiosi che successivamente vennero ammessi a giocare; in quell’area i portieri erano più rilassati e gli attaccanti più sereni; se tiravi alto, o di lato, o se facevi gol, anche, la palla rimbalzava sul muro della sagrestia e tornava in campo (perchè le “porte” mica avevano la rete); e allora lì, tutti a tirare, non come dall’altra parte, dove avevi sempre un po’ di timore di mandare il pallone ai “rovi”.
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Lo stadio più bello del mondo – Edizioni Clandestine