L’uomo venuto dalla nebbia – Maiatico FC 1983 II episodio (Luca Farinotti)

II       (L’Uomo Venuto dalla Nebbia)

 

 

Il 1985 era stato davvero un bell’anno: a scuola era andata benissimo, avevo due grandi amici, Andrea Ghirardi e Andrea Floris, l’uno biondo, l’altro moro, con loro giocavo a calcio alla ricreazione, tutti i giorni, e il sabato giocavo al campetto, a Maiatico.

S’erano aggiunti tanti nuovi acquisti.

C’era Pavlén, il fratello minore del Lupo: un vero sketch, aveva più scoordinazione del fratello e il grillo nascosto nelle pieghe della sua enorme pancia. C’era il Vincio, malvoluto un po’ da tutti, c’era Cristiano Lazzaroni, il personaggio più amato da Andrea Grassi e da tutti conosciuto come Il Cristian, identico fisicamente a Ivan Lendl, e poi c’erano Archi, quello delle cornici, detto l’Arcua e Gian Maria Azzoni, chiamato anche Azzon Faier, dalla canzone Heart’s on Fire (colonna sonora di “Rocky IV”), c’era Paolo Vicolo, un energumeno irreparabilmente mostruoso, ammalato di rabbia canina e c’era anche – doveroso ricordarlo – Andrea Folle, una meteora, quel tipico ragazzo la cui presenza è ignorata e la cui assenza non fa sospettare ad alcuno che sia mai stato presente.

Andrea Folle, detto Fulaia (in lingua ferdanesca), detto anche, per tutti e per sempre, L’Uomo Venuto dalla Nebbia.

Fu il genio incontrastato di Andrea Grassi a sfornare questo epiteto assolutamente leggendario. Fulaia era infatti un tipo strano, illeggibile, quasi impalpabile, nonostante i suoi novanta chili; era, a ragione, nebbioso, quasi difficile che fosse realmente vissuto dietro quella coltre che avvolgeva il suo corpo blobbotico. Era completamente senza collo, e una faccia strana da formichiere culminava in un ciuffetto morbido molto simile ad un guazzetto di capelli, ma più delicato, ed impalpabile. Attaccato direttamente alla faccia – altro soprannome, va da sé, L’Uomo Senza Collo – un corpo strano, informe, grosso ma impercettibile. Era coronato da una condensa perenne, microgoccioline di sudore inondavano la sua fronte, scivolando lungo le fessurine dei suoi occhi impalpabili, e la sua voce, flebile, quasi di gallina morente, irriproducibile e vaga.

Lo si ricorda, appunto, vagare per il campo senza che abbia mai toccato un pallone.

A dire il vero nessuno ricorda cosa facesse Fulaia quando saliva al campetto.

Ecco, forse a pensarci bene, Fulaia non è mai esistito… sì, dev’essere così,  forse (ipotesi triste ma più che plausibile) l’abbiamo inventato un giorno che eravamo dispari, tanto per far numero.

 

Uno degli aspetti entusiasmanti dell’estate 1985 era L’Avere il Motorino. Ovviamente ancora non avevo compiuto i fatidici quattordici anni, ma a Maiatico si era in collina e l’unico mezzo per spostarsi da una casa all’altra era il motorino.

Il mio era un Garelli modello vecchio, l’avevo bardato che sembrava una puttanella d’antan che si ridicolizza per sembrar più giovane, così invece che attraente diviene da tutti derisa. Io però gli volevo bene, ne rimiravo spesso i cerchioni, molto più grossi di quelli del Ciao. Avevo girato tutta la provincia per trovargli quella bella sella bianca e lunga, di pelle, con la scritta oro che la faceva davvero davvero tamarra, ma, almeno, sufficiente a placare la mia invidia cattiva per chi aveva il Fifty. Un giorno ne avevo anche smontato il carburatore, ci guardai dentro per vedere come diavolo fosse fatto e che cosa significassero, da parte dei privilegiati che avevano il Fifty, frasi come “Io ce l’ho del 19, mentre tu hai un 14/12!” (se si riferissero al carburatore o a quant’altro d’adolescenzialmente importante ero troppo ingenuo per capirlo). Passai molti giorni felici col mio Garelli, fino al giorno assolato in cui gli stroncai le forcelle contro la siepe del Baron Conte Barone, che confinava con il giardino dei Simpson/Grassi, quando tolsi le mani dai freni per ricambiare il saluto di Lupo, Mora e Titén che mi guardarono allibiti entrare nella recinzione come un replay.

Andrea Grassi aveva un bel Ciao rosso fiammante, Nouveau; a volte metteva il tasto-bicicletta e lo vedevi pedalare sul salitone col ghigno cattivo, la fronte gravida di bollicine di serio sudore e le ginocchia appuntite e sghembe, da lupo, che occupavano mezza strada d’apertura crurale.

Tito pilotava un motorino inventato, finto, per quanto mi riguarda, comunque tal Califfo 80, stilizzato e tubolare – avevamo il sospetto, data la vita restrittiva  cui Tito e le sue sorelle erano sottoposti dal loro spartano e nobil padre, che il Califfo fosse stato costruito di notte, di nascosto, col Meccano, dal mister Hyde che c’era in Tito stesso.

 

Quell’estate giocavamo quasi tutti i giorni.

Come prima tappa ci si trovava, io e il Lupo, alla chiesa. A volte caricava quel pachiderma di suo fratello sul portapacchi del Ciao, e praticamente, per lui era tutto un pedalare. Facevamo un veloce punto della situazione, poi si sfrecciava coi motorini attraverso l’aria calda profumata di more e di erica verso casa di Tito, il più difficile da tirare fuori.

Purtroppo a scuola era un somaro e solo l’intervento diplomatico di Andrea Grassi presso papà Monaldo sottraeva Tito all’altrimenti irrimediabile, insulso, pomeriggio sui libri. Il Lupo, lo scatarratore di Nôtre-Dame (per la famigerata gobba), riusciva a sfoggiare un rassicurante savoir faire con gli adulti, fino a convincerli che i loro figli, piuttosto che chiusi in casa, sarebbero stati meglio all’aria aperta, al sole (il che era vero) sotto la sua responsabile protezione (il che era antitetico alle leggi dharmiche).

Prelevato Tito, si partiva fiduciosi alla volta di tutti gli altri rinchiusi, per reclutare gli alfieri necessari ad una nuova grande giornata di divertimenti.

Per il Férda, già veterano dei motori, nonché bocciato 4 volte, sapevamo che non c’erano problemi, quindi si andava prima da lui. Seguitavi la strada fin dove terminava l’asfalto, poi avanzavi carraie di campagna fino alla piccola casetta del Férda, che s’affacciava da una conca incantevole sui calanchi boscosi.

La famiglia del Férda era stranissima: suo padre “aggiustava i mulini”, sua madre (per averla, raddoppia la mole del marito) era sempre nell’ovile; la sua sorellina minore, a otto anni era alta un metro e sessanta e non parlava mai – solo una volta ne udii la voce e mi ricordò Ferruccio Amendola.

Il Férda era alto un metro e novantacinque ed era soprannominato da Andrea Grassi L’Uomo delle Caverne. Aveva due mani grandi e rovinate come badili, tagliuzzate, sempre pregne di morchia e letame. Qua e là gli mancavano dei pezzetti di falange, aveva la mania dei motori in funzione e ci ficcava sempre le dita nell’intento di scardinarli in improbabili prove di forza. A scuola era un somaro, ma i suoi lo temevano e non osavano contraddirlo se decideva di uscire. Dovevamo sottostare ad alcuni rituali pietosi che ogni volta ci propinava – una rapida occhiata ai coiti delle sue caprette, che più le spaventava con guaiti e urla più scopavano; un minuto di contemplazione ai testicoli di suo zio Pierino, i quali, fuoriuscendo oscenamente dagli shorts blu contadini, gli si prolungavano mostruosi e gonfi fino alle ginocchia – e la pratica era finalmente sbrogliata, il Férda ci aveva mostrato i suoi migliori vanti, potevamo andare, tappa successiva la casa del Salvo.

Durante quel tragitto ero attraversato da pensieri cupi. Il Férda, a cavallo della mia sella Chopper, mi sussurrava all’orecchio la formazione della Juventus 82-83 (sapeva che ero juventino e voleva compiacermi): ZuoffGientileCabbrini BuoniniBriuScirrieaBiettegaTardielliRuossiPlatiniBuoniek, pronunciata così, tutta d’un fiato (il Férda parlava italiano, diceva di essere ligure ma di venire da Massa, tuttavia penso che la sua famiglia fosse in realtà un quartetto di fuggiaschi albanesi, con ascendenze russe).

Il Salvo abitava alla “Costa”, una fattoria stile Texas posta su un’altura da cui dominavi i boschi di Carrega e tutto quant’altro intorno.

Arrivavi nel suo cortile tra le galline che svolazzavano e la polvere che si sollevava, e ti sentivi Tex Willer al Ranch Triple X; il bestiame, il cielo blu, alto, e miss Tessy Malone sulla soglia, agricola e fascinosa.

Purtroppo il Salvo, alias Davide Salviani, a scuola, era un vero somaro, come richiesto dal genius loci: tirarlo fuori di casa era durissima, ma ci serviva un portiere e dovevamo riuscirci. Quando la Paola (miss Tessy) appariva sulla porta, minacciosa, non ci dispiaceva affatto perchè era una gran bella topona, io le promettevo che le avrei riportato a casa suo figlio Salvo entro un’ora; lei rientrava controvoglia,  dopo averci fissato per un attimo, zitta, poi udivi la sua voce alta “Non più di un’ora hai capito!!!”, l’eco compatta di un paio di platte ammonitrici, e finalmente si materializzava sul portone l’incomparabile Salvo, il ragazzo più traumatizzato che abbia mai calcato le leggendarie zolle maiaticesi.

I suoi traumi infantili si manifestavano attraverso un tic deturpante: muoveva la testa verso l’alto, di scatto, a ripetizione, emettendo un suono secco, rotto nella gola, come “UH”, “UH”, UH”. Mio padre, per sdrammatizzare, fingeva di tirargli addosso il pallone, lui si ripiegava su se stesso, a uovo, cominciava a gemere – come chi è abituato a subire violenze – e ad intonare un concerto di Uh Uh.

Un sabato, don Don ci venne incontro, durante una partita, per salutarci.

Era reduce da un esorcismo e dava i brividi. Si diresse risoluto verso il Salvo che, ipersensibile com’era, si spaventò e schizzò in una raffica di “uh uh” che il don interpretò per inerzia come un atto di ribellione satanica, assestandogli così una sequela di schiaffoni imperativi, da perfetto manuale di diabologia.

Restammo tutti sospesi tra il divertito e l’attonito.

Povero Salvo, gliele suonavano tutti, anche il prete.

 

Quando io, Lupo, Tito, il Salvo, Pavlén e il Férda arriviamo al campo, gli altri stanno già effettuando i palleggi di riscaldamento e, dopo i soliti convenevoli e lo scambio dei gagliardetti, i due capitani, ovvero io e mister Lupo, sono già a centrocampo per il “palla o campo”.

La mia formazione si schiera con il Salvo tra i pali, il Férda e Archi baluardi difensivi (con qualche riserva sull’Arcua, un po’ spaesato, forse perché troppo ricco, o troppo balordo, ma il Férda basta per due), il Cristian uomo-ovunque a centrocampo, io in cabina di regia e Claudién, va da sé, punta fissa  inamovibile ed irremovibile.

Avversari in campo con Ugo Giovannotti goalkeeper, Lupo e mio padre in difesa, Tito e Azzon Faier in avanti, Pavlén a vagare per il campo senza meta e il fantasma di Fulaia in tandem con Pavlén, a formare il duo dei sogni di ogni club.

È Lupo a dare il calcio d’inizio, servendo immediatamente Tito sulla linea centrale del campo, buona finta di corpo, mi supera agevolmente, ma arriva subito, puntuale, la mia falciata da dietro (non sopportavo di essere aggirato in dribbling): gioco scorretto, lamentele e proteste di Tito, partita subito calda.

Le entrate pericolose si susseguono da ambo le parti; dopo venti minuti ancora nessun tiro in porta, solo qualche conclusione di Grassi dalla distanza – abbondantemente alta, ovvio. Al 26’ svarione di mio padre che serve male Tito a centrocampo, interviene il Férda in scivolata con il pallone che mi carambola sui piedi, davanti a me tutto il campo vuoto, mi involo divincolandomi da Fulaia (!?)  appeso al mio braccio, entro in area, Giovannotti mi esce sui piedi, gli lancio una rapida occhiata, occupa tutto lo specchio della porta (“mai avere pietà dei tuoi avversari”, dice Krisna ad Arjuna nella Bhagavad Gita), non mi resta che sparargli una cannonata in faccia, collo pieno di destro da trenta centimetri, con tutta la mia forza, istintivamente porta una mano al volto per proteggersi, ma il pallone gli spezza il polso e carambola in porta.

Frazioni di secondi di silenzio, il tempo di tutti per realizzare l’accaduto, Ugo Giovannotti stramazzato che urla di dolore, in lacrime, la palla ferma, poeticamente immobile dopo il tiro, in rete, l’aria dorata delle cinque che filtra tra i bracci d’abeti scuri, la mia maglietta da sporco juventino, frazioni di secondi di silenzio, il profumo dolce di frutti estivi d’intorno, Giovannotti che nitrisce dal male, i miei pantaloncini da sporchissimo odiosissimo juventino, Giovannotti, l’avversario trafitto ed afflitto, spontaneo scaturisce da me un urlo che rompe il limbo di quell’istante, un urlo di libertà: “GOOOOOOOOOLLLL!!!!”

 

(Trasportavano Ugo Giovannotti al Pronto Soccorso giù in città, io pensavo a quanto fossi fico con la maglietta fuori alla Platini e i calzettoni abbassati, alla Omar Sivori).

L'uomo venuto dalla nebbia, Lo Stadio più bello del mondo, luca farinotti

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